27 agosto 2021

DA CORE A TIVOLI – APPUNTI DI LUIGI MORANDI

 I piccoli paesi di Monticelli e Sant’Angelo a pochi chilometri da Tivoli erano occupati da tre battaglioni del tenente colonnello Paggi, il quale si pose agli ordini di Pianciani. E fu buona ventura codesta, perché il nemico si disponeva ad attaccar Monticelli. Pianciani ordinò al Paggi di lasciare un battaglione sulle alture e di avanzarsi verso verso Tivoli con gli altri due.. Il nemico sospese la marcia nella pianura e ce ne fecero accorti i fuochi notturni, Sull’imbrunire anche l’altro battaglione ebbe l’ordine di recarsi a Tivoli; e alle 5 antimeridiane del giorno 6, S.Angelo e Monticelli venivano occupati dal nemico, che trovò casa vuota. Nella notte, tutti i nostri ufficiali superiori si riunirono a consiglio e deliberarono di abbandonare Tivoli ordinatamente, prendendo la via di Arsoli e le alture di Rio Freddo e Vallinfreda, per appoggiarsi al confine italiano di Orvinio, e là aspettare istruzioni e notizie sicure.

Alle 9 del 6 novembre 1867, la colonna composta di 4 battaglioni, si poneva in marcia con ordine perfetto.

La città era nello squallore; ma la Guardia nazionale stava sotto le armi e promise di mantenere alta la sua bandiera, finché avesse potuto, e in ogni modo, di conservarla, per rialzarla di nuovo e per sempre.

Una trentina di cittadini di Tivoli e de’ vicini paesi, ci seguirono, emigrando volontariamente.

All’una pomeridiana eravamo a Vicovaro; alle 4 ad Arsoli, dove si pernottò. Alle 3 pomeridiane del giorno 8, dopo una marcia sempre ordinata, ma oltremodo faticosa, su per quei monti privi affatto di strade, giungevamo a Vallinfreda, dove risapemmo che Garibaldi stava sotto buona custodia alla  Spezia, e che le truppe italiane avevano sgombrato il territorio pontificio, in cui non restavamo che noi e i pochi volontari comandati dall’Orsini.

Una colonna di 2000 Francesi ci pedinava, occupando successivamente i luoghi da noi abbandonati; non osava tuttavia attaccarci, dacchè noi avevamo sempre posizioni vantaggiose sulle alture, da dove anche le sassate avrebbero fatto meraviglie quanto gli chassepots.

Il restare più a lungo nel territorio nemico sarebbe stata follia.

Ma innanzi di ripassare il confine, si convenne con l’Autorità politica di Orvinio, affinché ai volontari venissero usati i maggiori riguardi.

Pianciani dettò un ordine del giorno, che fu letto tra vivissimi applausi; dacché esprimeva fedelmente le idee di tutti i volontari. 

Alle 10 del mattino il colonnello passava il confine, e al sindaco di Orvinio (Vincenzo Segni) e al Delegato di Orvinio, che gli erano venuti incontro, diresse queste precise parole: “ Io intendo di fare una formale dichiarazione. Al di là del Confine, noi siamo stati soldati della rivoluzione romana; di qua siamo cittadini ossequienti alle leggi del Governo italiano.” Ciò detto si discinse la sciabola e la presentò al sindaco, il quale, commosso, la rifiutò.

Alle sette della sera, al grido di  “Viva l’Italia!” “Viva Garibaldi!”, “Viva il nostro colonnello!”, i quattro Battaglioni deposero le armi, non senza qualche lagrima che invano taluni sforzavansi di celare!

La marcia lunga e disagiata aveva pure avuto qualcosa d’ameno.

Un frate piemontese che ci seguiva, ad ogni quattro passi sfoderava una predica, e diceva roba da chiedi contro il Papa, i Gesuiti, ecc, ecc, ai volontari e ai contadini che stavano a bocca aperta a sentirlo. Per lui il predicare ogni momento era un bisogno, come ne’ cani (Dio mi perdoni il paragone!) quell’abitudine che tutti sanno.